
arrivo
Approdo a Cala su Puntellu nel pieno pomeriggio di un caldo giorno di Agosto. Il cielo, terso ormai da settimane, si specchia sull’acqua in un rimando infinito di azzurro.
Il giorno di pagaiata è stato intenso: sono partito da Porto Ferro di primo mattino diretto verso nord, lasciandomi alle spalle l’Argentiera, Porto Palmas, Capo Mannu, e 16 miglia marine: quasi 30 km terrestri.
Siamo in Sardegna, lungo la costa nord-occidentale, a metà strada fra Alghero e l’isola dell’Asinara.




Mi affascina la bellezza aspra e per nulla consolatoria di questa costa della Nurra, così lontana dalle rotondità lisce e avvolgenti dei graniti della Gallura.
Qui la roccia è scura, ferrosa, a tratti nera e cosparsa di asperità. Risale spesso bruscamente verso la terra, dove diventa improvvisamente pascolo e terreno agricolo, facendo sembrare i due mondi incomunicanti e in competizione. Il mare qui erode la terra continuamente, prendendosi ogni inverno centimetri di terra e facendoli suoi.

Non sono ancora così stanco da dovermi fermare per forza, ma ho voglia di rilassarmi in questa spiaggia meravigliosa e godermi le ultime ore di luce nella sua solitudine assoluta.

La terra sembra come tagliata bruscamente da un coltello: la falesia che delimita la spiaggia, alta una decina di metri, è un miscuglio di sedimenti rocciosi e terrosi, un vasto campionario di sfumature di marrone, che colpite dalla luce rossastra del sole al tramonto si accendono e bruniscono di riflessi gialli anche i ciottoli quarzosi della spiaggia. È arrendevole all’erosione di mare e vento che la scolpiscono con facilità, scavandola in tetti, cornicioni e rilievi accavallati l’uno all’altro.

L’Isola dei Porri si regala alla mia vista quasi di fronte, in direzione di Capo Falcone. È un’isola alta e tozza, che protegge un poco queste insenature dai venti e dalle mareggiate di nord-ovest.

Tolgo da Aerius, il mio kayak Klepper, tutto quello di cui ho bisogno, accuratamente stivato nelle borse stagne. Monto la mia tenda da bivacco per prepararmi alla notte, che sarà l’apoteosi della tranquillità: raggiungere questa spiaggia via terra è lungo e difficile, non corro certo il rischio di doverla dividere con nessuno.

Tempo un paio d’ore, e il tramonto spennella sul cielo e sul mare colori che lasciano stupefatti, talmente sembrano irreali.
Si va dall’arancione al violetto, al porpora, poi bruscamente verso il viola intenso e il blu-notte. Il buio cala velocemente sulla costa silenziosa. Il mare pare fatto d’olio e a muoverlo non c’è un alito di vento.

Cosa sarebbe la notte di un naufrago – anche se in questo caso un naufrago volontario e coi i pieni poteri di ripartire quando vuole – senza il fuoco! Ogni volta che ne accendo uno mi torna in mente Tom Hanks in Cast Away, le prime terribili notti trascorse senza il fuoco e il sollievo quando finalmente riesce ad accenderlo. Quanto fatichiamo a sentirci umani nella notte privata del fuoco, del suo calore, della danza delle sue fiamme e del concerto del suo scoppiettio!
La legna qui è abbondante e perfettamente asciutta, trasportata dal mare e scaraventata sulla spiaggia dalla violenza delle frequenti mareggiate. Rami di tutte le fogge e misure, dai tronchi enormi e impossibili da sollevare, fino alle schegge di canne palustri, perfette per la fase di accensione. Bastano pochi minuti di raccolta per avere una provvista che durerà tutta la notte. Mi permetterà di strisciare nel mio accogliente bivacco alla sua luce e di addormentarmi con l’immagine del fuoco come ultima visione prima di crollare nel pozzo del sonno, cullato dal suo suono e dal ritmato respiro delle ondine che si frangono sulla sabbia.

al lavoro
Il giorno inizia presto quando è scandito dagli elementi. All’alba sono già in piedi e pronto a mettermi al lavoro. La legna che ieri è stata provvidenziale per scaldare la mia notte, purtroppo non è l’unica cosa trasportata dalle onde del vento di maestrale.

Nel punto di congiunzione fra le due lingue di sabbia separate da una di roccia si è accumulata una quantità enorme di detriti plastici – di qualunque misura, forma e colore. Dai minuscoli pellet usati come materia prima dall’industria plastica di Porto Torres, fino a carene di barche squarciate, enormi imballaggi di polistirolo, paratie, brandelli di sedie, tavoli, cassette… Passando per innumerevoli frammenti di cui è ormai impossibile dedurre la forma originaria.

Alcune cose ricorrono con frequenza: tappi e brandelli di bottiglie e bidoni, stick di lecca-lecca, accendini, cordame, fili di nylon. Ma la grandissima parte è irriconoscibile, ormai frantumata dall’azione degli elementi.

Molti frammenti sono fragilissimi, basta prenderli in mano e quasi si spezzano senza sforzo; altri sono ancora durissimi e arrotondati dall’annoso sbattere contro gli scogli. Questi resti viaggiano infatti sicuramente da molti anni, e in percentuale variabile arrivano da tutti i mari del mondo – spesso giunti fin lì attraverso i grandi fiumi. La parte visibile spiaggiata qui è senz’altro quella minore: quella maggiore è diventata pulviscolo plastico, pezzi talmente piccoli da riuscire a penetrare nella catena alimentare, con effetti a lungo termine sugli organismi marini e terrestri che ancora non conosciamo con certezza. Le cosiddette microplastiche.

Eccolo qui, un arcobaleno malato che colora di chiazze improbabili anche scogliere peraltro incontaminate come questa. Durante i giorni che ho trascorso qui non ho visto anima viva, né da terra né da mare: eppure anche qui la presenza umana è terribilmente ingombrante, seppure delegata ad oggetti ormai inservibili e per questo abbandonati dove capita. Questa moltitudine di colori assomiglia fatalmente alle loro prede abituali, e quindi attrae con i suoi colori pesci, mammiferi e uccelli, accumulandosi nel loro stomaco e portandoli spesso a morire, in preda a violenti coliche.

Accovacciato sotto il sole, che in questa stagione è implacabile, faccio quello che posso per raccogliere quanti più frammenti è possibile. Non ho contenitori dove metterli, ma poi mi viene l’idea di riempire le bottiglie d’acqua vuote che ho sul kayak. Ne porto tante con me, devo poter contare su almeno 2 litri di acqua al giorno, che pagaiando e sudando sotto il sole agostano spesso non sono nemmeno abbastanza. Ovviamente posso raccogliere solo frammenti che passino dalla bocca della bottiglia, ma anche così sono talmente tanti che la gran parte rimarrà purtroppo sulla spiaggia: lo spazio sul kayak è limitato, e così anche il mio contributo.

Riesco a riempirne una decina, che butterò nei cassonetti dedicati all’Argentiera, il primo borgo che incontrerò durante il viaggio di ritorno alla base di Porto Ferro.
Gironzolando sugli scogli faccio anche un altro incontro. Eccola qui. Un’enorme matassa aggrovigliata, fatta di rete da pesca (coi suoi galleggianti di polistirolo), cordame e fili di nylon. Questo schifo non è solo orribile a vedersi, magari fosse solo questo: è un autentico killer. Può continuare a uccidere pesci, crostacei, molluschi e perfino uccelli per anni. È facilissimo per un animale rimanere impigliato in questo groviglio e morire di fame o asfissiato.

Non so dove metterlo, ma so che non posso lasciarlo qui. Alla peggio posso arrampicarmi sulla falesia e lasciarlo a terra, dove può fare meno danno e sperare magari in escursionisti volenterosi. Ma la soluzione non mi piace e cerco di ingegnarmi. Tutto quel cordame che spunta dappertutto mi dà l’idea: lo assicurerò alla prua del kayak. Mi rallenterà non poco nel tragitto di rientro, che si preannuncia con vento contro e in rinforzo, ma è un prezzo che pago volentieri.

Mi pare di essere Sisifo. Raccolgo plastica per ore, eppure ho la sensazione di essere impegnato in un’impresa improba, di provare a svuotare il mare con un cucchiaio. I frammenti sono migliaia, basta scostare un po’ la legna o fare qualche passo più in là e se ne trovano altri, e altri ancora.
Ho la sensazione che sia un lavoro senza speranza, inutile… eppure so che anche questa sensazione è un nemico, che anche lo scoramento rema contro. Perché io qui sono solo, ma sono in tanti là fuori, sempre di più. Se moltiplicassi la giornata di oggi per tutti gli abitanti abili della Sardegna, la costa occidentale sarebbe pulita in una settimana.
