
Un kayak vagabondo e il suo Capitano lungo le coste del Nord Sardegna
Scrivere il racconto di un viaggio in kayak non è facile.
O meglio: non è facile farlo in modo da costringere il lettore a stare incollato allo scorrere dei segni neri sullo sfondo bianco. Non lo è perché non si incontrano altri uomini. Non ci sono dialoghi. Non si danno conflitti con qualcuno intenzionato a ostacolarci. E allora, come fare in modo che la storia regga? Come evitare l’effetto proiezione-diapositive, senza peraltro avere a disposizione invitati coatti e costretti con le pinze a tenere aperte le palpebre, come nella scena di Arancia Meccanica? Come accontentare il lettore, che – come da suo diritto – chiede di essere preso per mano e condotto fra i vortici e i marosi della narrazione, senza che gli venga mai voglia di scendere dalla barca e tornare alle sue giuste faccende? Appunto, non è facile.
Ma a ben guardare, tutto quanto ho scritto “non esserci” più sopra, c’è. Solo si trova in altra forma. Non si incontrano altri uomini, ma si incontra giorno dopo giorno un proprio sé modificantesi, in evoluzione parallela alle avversità che incontra. Non si rimane lo stesso uomo della partenza. È come guardare il proprio riflesso allo specchio mentre ci si muove a velocità prossime a quelle della luce: è un riflesso che non coincide mai col riflettente. Se durante un viaggio non ti sorprendi nella muta come una crisalide o un serpente, non sei un viaggiatore, sei un turista. Nulla di male e nessun giudizio: solo capire cosa si vuole e coincidere con le proprie istanze. “Non si incontrano altri uomini”: ecco che si rivela apparentemente vero, in realtà falso.
Falso questo, sarà falsa anche la deduzione che non si dia dialogo. È anzi un dialogo serrato, testardo, a volte folle. Virulento. Durante le interminabili pagaiate lontani dalla costa, con punti di riferimento che si muovono lentissimi verso di noi o lontano da noi, il dialogo è inevitabile, non gli si può sfuggire neppure volendo. A volte, anzi, la sfida è proprio quella di trovare il silenzio della mente, stracarica di istanze urlanti. Affollata di personaggi disposti a pagare caro, purché gli si conceda una comparsata.
È vero, nessuno cerca di impedirci nel nostro viaggio. Ormai è passato quel tempo culturalmente paranoide durante il quale gli uomini pensavano che la Natura – con la N maiuscola – fosse lì, infida e matrigna ben organizzata, a strappare gli uomini dai loro umani propositi.
Prendete Moby Dick: in ogni singola pagina la Natura trasuda un turbinìo demoniaco di presenze ostili, fantasmagoriche, rutilanti ultraterreno. Oggi no. Le sue forze sono ancora magnifiche e poderose, ma soprattutto magnifica e poderosa è la loro indifferenza, la loro fisica e meravigliosamente amica fatalità. Che non ci vuole né bene né male, come un’onda oceanica non si accorge dei granelli di sabbia che rotolano nei suoi avvolgimenti. Sola si staglia nel nostro animo un’immensa gratitudine verso il caso, che ha voluto che proprio qui, su questo pianeta, ci fossero le quasi miracolose condizioni per lo sviluppo di tutto quello che i nostri occhi vedono. Inclusi quegli occhi e il loro proprietario.
E tuttavia il conflitto si dà ancora, nella misura della sproporzione di forze fra noi – piccoli progetti organici caduchi e poco protetti – e il modo degli elementi. La differenza fra alta e bassa pressione, il repentino avvicendarsi di calura e freddo, il violento moto ondoso che ci arrischiamo a cavalcare, l’umidità che condensa sulla nostra testa infradiciandoci nella pioggia, il calore senza requie sulla nostra pelle indebolita dagli abiti che la schermano.
E dunque, se c’è conflitto, se ci siamo noi in quanto altri, se c’è dialogo e confronto, c’è storia. Proviamo dunque a narrarla.
Periplo-Prequel
Questo viaggio è come un preludio. Voglio circumnavigare la Sardegna intera, ma non mi sento ancora pronto. Devo acquisire prima una concreta, palpabile conoscenza dei miei ritmi di pagaiata, del mio rapporto con l’imbarcazione, della mia capacità di resistenza e di quella della barca. Della distanza che sono in grado di coprire in un solo giorno e dell’effetto su di me del prolungato sforzo fisico e della crescente solitudine. Ho bisogno di un’alfabetizzazione ad ampio spettro, di testarmi come una cavia da laboratorio. Per questo ho deciso di preludiare con questo viaggio l’impresa che ho in animo di organizzare. Potrei definire quindi questo primo viaggio come una sorta di periplo-prequel.
Campo Base
Proprio come una spedizione alpinistica impegnativa, anche il mio tour in kayak ha un suo campo base, e poi vari campi di quota. La quota nel mio caso rimane sempre zero, quel che cambia è il mare navigato, la distanza dal campo base, la rarefazione nella presenza di esseri umani. La solitudine che cresce e si allunga, giorno dopo giorno. Il mio campo base, il mio ricovero tecnico, è la pineta di Porto Ferro, nord ovest dell’isola. Porto Ferro è una baia maestosa, un lingua di sabbia ambrata protetta a nord da un alto promontorio di trachite rossastra e interstizi di arenaria, erosa in modo creativo dal vento e dall’acqua. Verso est la spiaggia è contornata invece da una fitta pineta, che mi offre protezione e ristoro prima della partenza e al ritorno.

Partenza
Parto di buon mattino diretto verso nord, e costeggio il promontorio accompagnato da una calma assoluta e un mare piatto, condizioni piuttosto rare lungo questa costa normalmente sferzata dal maestrale. Punta Lu Caparoni e Lu Cornu dominano dall’alto la mia pagaiata veloce e regolare. Approfitto appieno della bonaccia per filare rapido e mettermi miglia alle spalle. Quando si verificano queste condizioni, infrequenti per una costa, il kayaker deve sfruttare la rara occasione per portarsi avanti il più possibile lungo la rotta. È impossibile sapere quanto durerà, ma una cosa è certa: non durerà. E allora eccomi a pagaiare dannatamente per raggiungere la prima tappa di giornata.
Raggiungo e supero il Capo dell’Argentiera. Questa punta ha una particolarità. È in assoluto la terra emersa più a occidente dell’intera Sardegna. E se non fosse per un breve tratto di Liguria, da Imperia al confine italo-francese, sarebbe anche il punto più a ovest dell’intera Italia. Per poco, quindi, non mette il secondo record in bisaccia. Il primo, però, sicuramente. Questa caratteristica lo rende un capo particolarmente insidioso durante le fasi montanti del mare in tempesta, perché così incuneato a largo, subisce per primo le sferzate del mare che cresce e mugghia, molto prima di altre parti della costa più protette.

Ma non oggi. Oggi il mare mi è amico senza riserve. Approdo a Cala San Nicolò a fine mattina. È la cala principale dell’Argentiera, questo meraviglioso ex borgo di minatori circondato da alti scisti argentiferi. Cala San Nicolò è composta da tre spiagge separate da scogli e rocce, io scelgo quella più piccola per riprendere fiato e mangiare qualcosa. Ma non mi trattengo a lungo. La giornata è ancora lunga, ho tante miglia ancora da pagaiare. Riparto in direzione di Porto Palmas, non lontano dall’Argentiera, ma con una geologia già molto differente. Mi fermo in una delle calette che lo anticipano, più per la bellezza del luogo che per la necessità di riposare. Ma non posso lasciarmi sfuggire l’occasione di fotografare queste falesie terrose di roccia sedimentaria, chiazzate dal verde intenso della macchia capace di resistere a tutto, anche a questa costa martoriata dal mare e alla sua terra avara di nutrimento.

Questa meraviglia si chiama Cala di Punta Banderetta, e per fortuna è inaccessibile per chi voglia arrivare in auto. Qui si arriva solo a piedi, oppure dal mare. Non è possibile altrimenti. Infatti è deserta. Nessuno a dividere con me l’acqua trasparente di riflessi azzurro-verdi.

Supero Porto Palmas e vedo scorrere a dritta alcune spiagge molto belle, ai piedi di alte falesie dove la terra pare tagliata di netto da un coltello. Una di queste si chiama La Frana, nome appropriato vista la sua conformazione, che farebbe pensare che sia fatta di roccia crollata giù dall’alto e polverizzatasi nell’impatto. Ma io mi fermo in quella successiva, Cala di Capo Negru, altrettanto bella e forse ancor più inaccessibile da terra. Dunque deserta, come fossi su un’isola disabitata. La lingua di ciottoli è particolarmente bianca e brillante, segno che la sua grana media è molto quarzosa, e contrasta magnificamente con le rocce scure che la delimitano.

Questa cala si chiama così perché, navigando verso nord, arriva immediatamente prima di Capo Negru, magnificente promontorio di scisto scuro, dai contorni teromorfi che ricordano quelli di una testuggine pronta a tuffarsi nel blu intenso del mare.

Ma non regge il confronto con Capo Mannu, che lo segue subito dopo, a nemmeno un miglio di distanza.Capo Mannu è imponente. Guerresco. Terribile. Se fosse un animale, sarebbe un gigantesco erbivoro preistorico che nessun predatore osa insidiare. Uno uintaterio del Paleocene, un brontoterio dell’Eocene. Se fosse un’arma, sarebbe una torre d’assedio usata per penetrare di forza oltre le mura di una città. Ma potrebbe anche essere dall’altra parte, un muraglione inavvicinabile a prova di qualsiasi assediante. Una cittadella fortificata, che dissuade chiunque dall’assalirla. Nero come un immenso pezzo di carbone, alto e scosceso. Ma soprattutto lungo. È un capo che non si insinua a punta digradante nel mare, ma lo blocca con un gesto imperioso per ben 600 metri. Le onde, anche le più violente, sbattono contro questo scisto levigato senza nessuna speranza di eroderlo, come fanno invece facilmente con le arenarie morbide poco lontane da qui. E sbattendo vengono rimbalzate indietro, a scontrarsi di riflesso con quelle in arrivo. Ne nasce una furibonda contesa fra onde che vanno e vengono, col risultato di sollevare le creste e far ribollire il mare come fosse un’immensa pentola in ebollizione. Trovarcisi in mezzo, è un’esperienza limite, e spero di venire risparmiato durante questo viaggio.

Passare un promontorio in kayak ha la stessa valenza che scollettare in bicicletta sulla strada, guadagnare il passo dopo un’ardua salita. Finalmente il panorama che ci ha accompagnati magari per ore cambia, e lo fa d’improvviso. Riusciamo a suddividere la nostra fatica, dandole respiro e rendendola così sopportabile, scandendola al ritmo del paesaggio che svolta.
Anche Capo Mannu viene passato, ma il colore della roccia non cambia. Sempre scuro, severo. Un monito costante della vicinanza imperscrutabile ma onnipresente del buio. La superficie è tormentata da spuntoni e crepe in alto, da incrostazioni gasteropodi e vegetali a livello dell’acqua. Qui è lo Scoglio Businco ad affiorare dall’acqua come un nuotatore intento a dare la bracciata, sullo sfondo lontano della spiaggia di Rena Maiore.

Il pomeriggio si inoltra, nel frattempo che proseguo instancabile verso nord, avvicinandomi lentamente al territorio di Stintino. Approdo a Cala su Puntellu in pieno pomeriggio. Il giorno di pagaiata è stato intenso, mi sono lasciato alle spalle 16 miglia marine, quasi 30 km terrestri.

Mi affascina la bellezza aspra e per nulla consolatoria di questa costa, così lontana dalle rotondità lisce e avvolgenti dei graniti della Gallura. Qui la roccia è scura, ferrosa, a tratti nera e cosparsa di asperità. Risale spesso bruscamente verso la terra, dove diventa improvvisamente pascolo e terreno agricolo, facendo sembrare i due mondi incomunicanti, in competizione fra loro. Il mare qui erode la terra continuamente, prendendosi ogni inverno centimetri di terra e facendoli suoi.La costa sembra come tagliata bruscamente da una lama rovinata. La falesia che delimita la spiaggia, alta una decina di metri, è un miscuglio di sedimenti rocciosi e terrosi, un vasto campionario di sfumature di marrone, che colpite dalla luce rossastra del sole al tramonto si accendono e bruniscono di riflessi gialli anche i ciottoli quarzosi della spiaggia. È arrendevole all’erosione di mare e vento che la scolpiscono con facilità, scavandola in cornicioni, tetti e rilievi accavallati l’uno all’altro.

Non sono ancora così stanco da dovermi fermare per forza, ma mi attira l’idea di rilassarmi in questa spiaggia meravigliosa e godermi le ultime ore di luce nella sua solitudine assoluta. Tolgo da Aerius, il mio kayak Klepper, tutto quello di cui ho bisogno, accuratamente stivato nelle borse stagne. Monto la mia tenda da bivacco per prepararmi alla notte, che sarà l’apoteosi della tranquillità: raggiungere questa spiaggia via terra è lungo e difficile, non corro certo il rischio di doverla dividere con nessuno.

L’Isola dei Porri si regala alla mia vista quasi di fronte, in direzione di Capo Falcone. È un’isola alta e tozza, che protegge un poco queste insenature dai venti e dalle mareggiate di nord-ovest. Il tramonto spennella sul cielo e sul mare colori che lasciano stupefatti, talmente sembrano irreali. Si va dall’arancione al violetto, al porpora, poi bruscamente verso il viola intenso e il blu-notte. Il buio cala velocemente sulla costa silenziosa. Il mare pare fatto d’olio e a muoverlo non c’è un alito di vento.

Prima Aurora
Quando fai una vita scandita dagli elementi, quando il tuo giorno finisce al tuffo del sole in mare, allora anche quello successivo inizia allo stesso modo con il primo chiarore dell’aurora. La prima notte è trascorsa nella tranquillità più assoluta, cullato dal lento respiro marino che alita sul bagnasciuga smuovendo e rotolando la ghiaia di quarzo della spiaggia. Smontare la tenda e impacchettare tutto di nuovo, concedendosi anche qualche minuto per un colazione che mi fornisca energia da pagaiare, è un’ouverture che mi porta via circa un’ora. Meno è quasi impossibile, per fare tutto con ordine e poter ritrovare facilmente ogni cosa al successivo bivacco o durante le brevi pause. È la natura del viaggio in solitaria e a contatto diretto con gli elementi che porta ad essere metodici e organizzati. Il prezzo che si paga per non esserlo è troppo caro. Alle 6:20 son già in acqua diretto verso l’Isola dei Porri, che sfiorerò passando nello stretto canale che la separa dal resto della terraferma.

Quando il mare è così calmo, è possibile tagliare le insenature da capo a capo, senza essere costretti a seguire pedissequamente la costa lungo tutto il suo frastagliamento. Così, dall’Isola dei Porri taglio dritto verso Coda della Carasanta, altro promontorio tetro e spigoloso, che i raggi del sole all’alba riescono a scaldare in riflessi rugginosi e ambrati.

Subito dopo ci sono due piccole spiagge, Coscia di Donna e – ancor più piccola – Cala di Punta su Turrione. Sono le due ultime spiagge della costa occidentale sarda, andando verso nord. Dopo di loro più niente. Nessun approdo possibile fino alla Pelosa, oltre Capo Falcone, che separa la costa occidentale da quella settentrionale. La Pelosa è quindi a buon diritto una spiaggia del nord dell’isola, mentre queste due sono le due ultime occidentali ufficiali. Non le visito e proseguo oltre. Il fatto di non avere spiagge, cale o approdi per ben 6 miglia, mi mette alla mercé delle condizioni meteomarine. Se qualcosa dovesse andare storto, se il mare dovesse ingrossarsi improvvisamente tanto da dover approdare in fretta e furia, qui non sarebbe possibile. Già solo questa ipotesi mi fa guardare questa costa certamente estasiato, per la sua marziale bellezza, ma anche col retropensiero di un’immaginazione che mi proietta in una giornata di tempesta montante. Per fortuna il mare oggi è piatto e lo è stabilmente da giorni, ma comunque preferisco lasciarmi alle spalle questo lungo tratto di costa potenzialmente ostile.

Capo Falcone ha l’imponenza di Capo Mannu, ma con una forma più organica, più contraddittoria. La sua funzione di baluardo geografico fra occidente e settentrione gli conferisce una maestà simbolicamente più significativa. L’effetto di giustapposizione fra nero dello scisto e blu intenso dell’acqua profonda è memorabile. Rimango a galleggiare placidamente per parecchi minuti a godermi lo spettacolo.

Poi pagaio verso l’Isola della Pelosa, verso la “civiltà” di cui sento già l’inconfondibile frastuono. L’isoletta è dominata dalla torre di avvistamento omonima, l’ennesima torre del sistema di avvistamento e difesa contro le incursioni piratesche dei mori, i famigerati saraceni. A Porto Ferro, il mio campo base, ce ne sono ben tre. Questa è la prima che incontro dopo averle salutate ieri alla partenza.

La spiaggia della Pelosa è infestata dai turisti. Nonostante sia a numero chiuso da qualche tempo ormai, dal mare non riesco nemmeno a vederla. Vedo solo un blob colorato di ombrelloni, costumi da bagno e carne umana variopinta. La spiaggia non la vedo assolutamente: la intuisco.E allora pagaio velocemente oltre, per non essere costretto a subire anche i raggaeton da spiaggia e gli urli ininterrotti di marmocchi e imbecilli impegnati a sguazzare fra le gambe gli uni degli altri.
Tratterò l’Isola Piana come una boa da regata: le circumnavigherò attorno e riprenderò la via dell’andata al contrario.Ma per ora mi godo ancora la vista di quest’isola affascinante. Passo a pochi metri dalla Torre della Finanza. Costruita nel 1525 praticamente sull’acqua. È un’altra torre di avvistamento anti-pirateria, questa particolarmente ben mantenuta.

Poi ridiscendo lungo il lato esposto a nord ovest, molto diverso dal resto dell’isola. La gran parte dell’Isola Piana infatti è bassa, in parte sabbiosa, ricoperta di rada macchia e poseidonia spiaggiata. Questo lato invece è roccioso e di difficile approdo, come se mantenesse una stretta parentela con le scogliere di Capo Falcone. Una micro caletta comunque la trovo, molto riparata e composta da ciottoli piuttosto grossi. L’acqua è verdastra vicino alla riva, segno della proliferazione di alghe nell’acqua troppo calda a causa del poco ricambio con acqua fresca da fuori. È stato vitale trovarla, comunque. Ormai avevo una fame spasmodica, ma non avevo osato fermarmi in zone dove potevo avere contatti umani con i turisti agostani. Qui invece sono del tutto fuori pericolo. Sarà l’ultima pausa della giornata prima di quella finale per la notte.

Riprendo la rotta, questa volta verso sud. Ora, più tranquillo per i tempi larghi che mi rimangono prima della sera, mi attardo ad esplorare le scogliere attorno a Capo Falcone. Un’insenatura in particolare cattura la mia attenzione. È profonda, ha una sorta di anticamera prima di un lungo corridoio che conduce ad una segreta. Riceve la luce del sole dall’alto come una chiesa dalle finestre del cleristorio, dando quell’effetto divino ben architettato dall’ecclesia per estasiare i fedeli. In fondo, nel buio che non vedo, la lenta onda di risacca comprime l’aria negli ultimi arzigogoli del tunnel. Il suono che viene fuori dalla campana di roccia è animalesco, ma di un’animalità infera, subterrena. Pare quasi il ruggito gorgogliante di un bestiale oracolo pagano, il quale decida di volta in volta se vaticinare o divorare il richiedente. Rimango a galleggiare a lungo, stretto fra queste alte pareti di roccia, lentamente attratto verso la bocca lamentosa, ma poi bastano poche lente pagaiate in retromarcia per uscire di nuovo alla luce del sole spietato del primo pomeriggio.

Ripercorrendo la rotta mattutina, riecco l’Isola dei Porri, che vista da questo lato sembra un’altra. Approdo di nuovo a Cala Su Puntellu. Talmente mi è rimasta nel cuore, con la sua solitudine, l’acqua bassa e tiepida, gli scogli a corona che la proteggono su due lati, che decido di fermarmi di nuovo qui. Ha qualcosa di intimo ormai questa spiaggia, mi sembra di essere a casa. Anche il nomade talvolta ama indugiare in un punto che gli dimostra particolare amicizia e stringere familiarità con le rocce, i sassi, i tronchi abbandonati dal mare, gli arbusti.
Resti Umani
Rimango qui per due giorni, a rilassarmi e a mangiare ricci. Ma soprattutto a darmi da fare. La legna che ieri è stata provvidenziale per scaldare la mia notte, purtroppo non è l’unica cosa trasportata dalle onde del vento di maestrale. Nel punto di congiunzione fra due lingue di sabbia separate da una di roccia si è accumulata una quantità enorme di detriti plastici – di qualunque misura, forma e colore. Dai minuscoli pellet usati come materia prima dall’industria, fino a carene di barche squarciate, enormi imballaggi di polistirolo, paratie, brandelli di sedie, tavoli, cassette… Passando per innumerevoli frammenti di cui è ormai impossibile dedurre la forma originaria.

Accovacciato sotto il sole, che in questa stagione è implacabile, faccio quello che posso per raccogliere quanti più frammenti è possibile. Riesco a riempirne alcune bottiglie, che butterò nei cassonetti dedicati all’Argentiera, il primo borgo che incontrerò durante il viaggio di ritorno alla base di Porto Ferro.

Gironzolando sugli scogli faccio anche un altro incontro. Eccola qui. Un’enorme matassa aggrovigliata, fatta di rete da pesca (coi suoi galleggianti di polistirolo), cordame e fili di nylon. Non è facile trovargli un posto sul kayak, ma so che non posso lasciarlo qui. Lo assicurerò alla prua. Mi rallenterà non poco durante il rientro, ma è un prezzo che pago volentieri pur di portarlo via da questo paradiso.

Cala l’ultima notte che trascorrerò qui. Lo spettacolo dell’Isola dei Porri al tramonto, come sfondo per queste piante eroicamente abbarbicate ai massi lontani pochi centimetri dall’acqua, è sublime.

L’Urlo del Maestrale
La notte in più passata a Su Puntellu ha un prezzo. Il maestrale sta caricando già da qualche ora e ormai è in rinforzo deciso. Anche il cielo va rabbuiandosi, con nuvole spesse che mi passano sul capo, a frenare la luce del sole. Arrivo a Capo Mannu e succede in pieno quello che temevo. L’acqua è cosparsa di alti spuntoni e avvallamenti in rapida successione. Le creste sono molto alte e asincrone, così che è impossibile prendere le misure di queste onde inquiete e pericolose. Deglutisco saliva per alleviare il groppo in gola che mi preme, e taccio, per i primi minuti. Tutta l’energia è concentrata nella pagaiata, che pretendo lunga, profonda, efficace. Poi inizio a parlare a voce alta, a darmi istruzioni, ad incoraggiarmi. A spronarmi. A dirmi che andrà tutto bene, a patto di tenere duro. È una mezz’ora scarsa, ma pare mezza giornata. Finalmente passo il capo, e il fenomeno dell’onda riflessa finisce, senza le alte pareti del capo che lo producono. È un sollievo. Nonostante il vento continui a rinforzare, almeno questo ostacolo temibile è superato.
Giungo all’Argentiera e posso finalmente disfarmi di tutta la plastica raccattata e la matassa di rete da pesca e corde. Sono molto più leggero adesso, posso tentare di passare Capo dell’Argentiera per poi avere ancora ben poco mare – e con vento in poppa – fino a Porto Ferro. Più guadagno metri, più il vento vicino alla punta è impetuoso. Sono costretto ad abbassare il busto per offrire meno ostacolo possibile alle raffiche. L’acqua è tutta increspata e sbuffi già si sollevano, raggiungendomi in faccia. Mi do il ritmo per pagaiare con velocità, regolarità e massima propulsione. “Intenso!”, urlo quando affondo la pagaia dal remo sinistro. “Profondo!”, quando passo al destro. Mi muovo con una lentezza esasperante. Non ho mai fatto tanta fatica sul mio kayak. Giungo a ridosso della punta, nell’insenatura rocciosa che immediatamente la precede. Faccio il giro interno largo, per prendere fiato e meno vento, riparato dalle alte rocce. Ma poi finiscono anche loro. Il mare aperto, eccolo lì. Inevitabile. Guardo in lontananza, a circa cinquanta metri da me verso la punta. L’acqua viene inghiottita da vortici violenti che sembrano portarla sotto le rocce, in un mulinare ribollente di furia.Nella mia mente mulinano allo stesso modo le possibilità, i dati, le variabili, i rischi della situazione. In pochi secondi il processori del cervello analizzano quel che possono, tenendo conto di quel che vedono. E di quello che non vedono ma che è lì dietro e sento mugghiare. Devo decidere. Non posso star qui a lungo. O vado, o desisto. Alla fine decido. Torno indietro. Gli elementi non stanno scherzando, l’altezza dell’onda più cambiare repentinamente in peggio nel giro di pochi minuti. E già qui è temibile. Non porto avanti una sfida impari. La saggezza e l’istinto di autoconservazione mi fanno fare testa-coda. Viro a dritta di 180° e spinto dalla violenza del vento in poppa in pochi minuti sono in spiaggia. Per la prima volta, da quando sono partito, sono vicino ai miei simili. Mi arrampico sulle colline di detriti rocciosi che sovrastano la spiaggia. È materiale di risulta dell’attività mineraria cessata ormai dagli anni ’60. Salgo più in alto possibile per raggiungere le alture di Capo Argentiera e vedere con i miei occhi le condizioni del mare. Penso con speranza, ma con scetticismo assoluto, che magari il vento non è in rinforzo e potrebbe concedermi di passare, fra qualche ora. Ma so già la risposta. Conosco vento e mare troppo bene per poter accarezzare l’illusione. Già mi attrezzo a passare qui svariati giorni, in attesa che la maestralata passi.
È ora che ricevo la telefonata di Camilla, da Porto Ferro. Sapendo delle condizioni meteo, mi chiede con ansia come vada. Le dico dell’Argentiera e si offre di venirmi a prendere in auto. Porto Ferro e l’Argentiera in macchina distano forse trenta minuti, un’inezia. Ma in kayak sono ora incommensurabilmente lontani. Un gommone con un bel motore da cinquanta cavalli ce la farebbe. Io non ho che le mie braccia. Accetto. Tollero il fatto di essere recuperato da un mezzo a motore solo perché questo è ancora un prequel. Un prequel del periplo e come tale una sua preparazione. Un allenamento. Smonto il mio Klepper Aerius e nello spazio di un paio d’ore sono di ritorno al mio Campo Base. Operazione search and rescue perfettamente riuscita.
Ripartenza
Devo aspettare alcuni giorni prima di proseguire verso sud. Col mare in tempesta in questo stato, non solo io col mio kayak non mi azzardo neppure a pensare di riprendere il mare, ma non lo fa nessuna barca di stazza inferiore ad un traghetto. Ne approfitto per prendermi cura dell’attrezzatura, ripristinare la scorta di acqua e cibo, riguadagnare forze.
Fatalmente il tempo di salpare arriva di nuovo. E io non sono certo difficile da convincere a farlo. Rieccomi in acqua, diretto questa volta a sud. Non ho bene in mente fin dove arriverò, adatterò i miei piani alle condizioni meteomarine.
Subito a sud di Porto Ferro incontro Punta Cristallo, seguita poi in rapida successione dalle alte scogliere calcaree attorno a Capo Caccia. Decido ora di non fotografarle, contando di ripassare di qui fra alcuni giorni. Faccio una pausa pranzo a Cala Calcina, all’interno della vasta baia di Porto Conte, e riprendo a pagaiare nel pomeriggio, quando passo l’altra punta maestosa di questo litorale magnifico: Punta Giglio.

Qui la roccia calcarea è ambrata dal processo di ossidazione. Complici i raggi del sole ormai non lontani dal tramonto, le pareti una volta bianche sono ora ingiallite come i denti di un accanito fumatore. In prossimità della punta, l’onda si fa alta e corposa, ma avendola di poppa mi viene facile surfarla, cosa che mi spinge rapidamente al riparo oltre Punta Galera. Mi lascio a babordo anche il Lazzaretto e le Bombarde, spiagge molto amate dai turisti, che vedo infatti affollarsi in lontananza. Io invece decido di fermarmi anche stavolta dove non c’è un’anima, in una delle cale di Punta Negra, con Fertilia in vista in lontananza. Qui grandi massi di calcare sono lambiti da un lato dalla sabbia ciottolosa, dall’altro vengono schiacciati dalla massa di terra rossastra su cui cresce la pineta retrostante. Accendo il mio solito fuoco, mentre la notte mi regala la vista sullo scintillio della notte algherese, che immagino essere affollata e festante.

A Sud!
La sveglia è alle 5:00 e questa prima foto è delle 6:20. Ancora nessun minimo accenno della brezza di termica. L’umidità della notte ancora vaporeggia sull’acqua indisturbata.

Filo veloce verso i Bastioni di Alghero, che supero e mi volto ad ammirare, nella visuale che dal mare dovevano avere anche gli antichi pirati quando si preparavano ad arrembare.

In lontananza sull’acqua vedo un grande vascello. È un cinque alberi gigantesco, una meraviglia. Probabilmente una goletta. Decido di avvicinarmi quanto più possibile per fotografarla, e ho la tentazione di raggiungerla fin sotto lo scafo e magari parlare con l’equipaggio. Ma si muove rapida verso il centro della rada di Alghero e starle dietro mi farebbe perdere almeno un paio d’ore, forse di più. Mi accontento allora di ammirarla da lontano. Solo dopo scopro la sua identità. È la Royal Clipper, di recente costruzione ispirata alla nave Preussen. È la nave a vele quadre più grande al mondo con i suoi 134 metri, una larghezza di 16 e la dotazione di 5 alberi, il maggiore di 52 metri di altezza. Può spiegare 42 vele, per un totale di 5200 mq di superficie velica. Un portento di barca.

La saluto come un passerotto potrebbe salutare un elefante su cui si sia posato per qualche minuto, e mi dirigo verso Punta Pòglina. Eccola, la punta che marca l’abbandono della Rada di Alghero, dominata anche lei dalla sua brava torre anti-saraceni.

L’ampio golfo che si apre qui non va in profondità nell’entroterra, dunque non offre un grande riparo dalle onde del Mar di Sardegna ed è molto avaro di spiagge e approdi comodi. A parte quella di Pòglina, praticamente non ce n’è neppure una. E allora devo giocoforza approfittarne per una pausa.Il carattere di questo tratto di costa è soprattutto un verde molto intenso della macchia, che arriva quasi al mare. Segno evidente che l’erosione dei rilievi collinari e le continue frane hanno accumulato molto terreno in basso, sufficiente per la crescita di ampie zone di vegetazione folta. La geologia rispetto all’Algherese è assai diversa: il calcare biancastro ha lasciato completamente il posto a scure andesiti vulcaniche, molto ferrose. Le protagonisti di questa subregione, la Planargia.

Capo Marrargiu, che passo al pomeriggio, è un grande blocco di questa materia dall’aspetto terroso e rugginoso. Lo doppio quando il vento va rinforzando parecchio, e trovare sulla mia rotta Porto Mànagu è come qualcuno che ti apra la porta mentre per strada scappi inseguito dai briganti.

Porto Mànagu è una spiaggia deliziosa di grossi ciottoli ben levigati dall’acqua e dal continuo sfregarsi l’uno con l’altro. Nel lato verso Bosa è come protetta e sorvegliata da un tozzo isolotto, il suo gendarme personale. Sarà questo il mio ricovero per stanotte: anche se giungo qui con ancora tante ore di luce a disposizione, la bellezza del luogo e la protezione che mi promette mi convincono a non proseguire. Ho il tempo di fare una bella nuotata ed esplorare il fondale sabbioso pieno di pesci.

Non è facile accamparsi su questi sassi, che anche se lisci son belli grossi. Ma per fortuna ci sono dei punti in cui un po’ di poseidonia e altri scheletri di piante marine si sono accumulate, cosa che ammorbidisce il giaciglio.

Mezza Sardegna
La sveglia è prestissimo anche oggi, e la calma piatta sembra promettere che riuscirò a navigare per parecchie miglia. Filo via infatti per almeno mezz’ora senza ostacoli di sorta sull’acqua che pare olio. Ma improvvisamente il vento che arriva da terra cambia decisamente di tono. È un groppo bianco, come lo chiama la meteorologia: un incremento violento e veloce della velocità media del vento che dura parecchi minuti, ma a differenza del groppo generico non porta con sé pioggia o rannuvolamenti. Mi coglie impreparato e ancora abbastanza distante dalla costa, così che non riesco ad ridossarmi a lei per trovare protezione. Prima di raggiungere il bastione di tufo trachitico di Cala Pinna, poco più a sud di Torre Argentina, devo veramente sudare l’anima. Solamente a pochi metri dalla falesia trovo una zona riparata, dove posso pagaiare finalmente con tranquillità, costeggiando Cala ‘e Moro e la famosa Cane Malu.

Sono alla foce del fiume Temo. Qui c’è la barriera frangiflutti artificiale che protegge l’entrata al porto fluviale, l’anima più vera di Bosa. Risalire il Temo in kayak per quanto possibile è un mio pallino, ma per questa volta rimando a futura data questa esperienza. Voglio mettere miglia marine alle mie spalle e vedere quanto a sud riuscirò a spingermi. La risalita del Temo è rinviata. Quello che invece mi concedo è una colazione al bar della Spiaggia di Turas, a Bosa Marina. Una spiaggia terrosa che pare quasi un deposito di sabbia edile di una cava di materiali da costruzione.

Il groppo bianco è ormai passato e la giornata si indirizza sui binari meteorologicamente tranquilli di metà Agosto. Lasciato a babordo Porto Alabe, incontro una nuova torre aragonese. Questa guarda dall’alto una piccola spiaggia, rendendo il quadro veramente magnifico. È la Torre della Columbargia, vecchia di circa cinque secoli, e viste le condizioni pare sentirli tutti.

Sto lasciando il territorio di Bosa. In effetti qui siamo già in quello di Tresnuraghes, ma in mare i confini amministrativi sembrano non avere né effetti, né rilevanza. Lungo la costa quello che conta, quello che comanda veramente è la roccia. L’origine, la conformazione, la chimica. Tutto il resto pare venire di conseguenza. Qui si mantiene inalterato il tratto scuro e vulcanico. Mi ricorda vagamente uno scorcio delle Isole Galapagos, tanto che mi aspetterei di vedermi nuotare a fianco delle iguane. Gli Scogli di Corona Niedda sono sentinelle a guardia di un’altro golfo che qui si apre e termina a Punta Foghe.

Il sole oggi è spietato, per la mancanza assoluta di vento. Sono alla sua mercé. Arrivato a ridosso di Punta Foghe c’è un’alta scogliera, divisa equamente e perfettamente fra il calcare bianco alla base e il basalto scuro in alto, venato da tracce rossastre trachitiche, forse composte di minerali ferrosi ossidati. L’effetto è spettacolare.

Ma è soprattutto l’ombra a tenermi fermo qui per parecchi minuti. Il sole è quasi a picco, ma ancora per poco una lingua d’ombra resiste e mi offre ricovero. Va assottigliandosi però sempre di più, ormai non rimangono che un paio di metri d’acqua dove galleggiare. Tempo di ripartire.

Esattamente dietro Punta Foghe c’è appunto la foce del Rio Mannu, ma me ne perdo completamente la vista, probabilmente perché in questa stagione secca dell’anno il rio non riesce a portare acqua al mare. È uno dei tanti rio mannu della Sardegna. Mannu significa grande e l’aggettivo è stato copiosamente attribuito dalle genti sarde a vari corsi d’acqua dell’isola.
Capo Nieddu è un’altra zona dove il contrasto fra il verde-blu intenso del mare e la roccia nera e marrone dà uno dei suoi migliori risultati pittorici. Anche qui la scogliera è alta e scoscesa. Alcune vene d’acqua dolce trovano dal terreno soprastante la strada verso il mare, infiltrandosi fra le crepe e portando accumuli di calcare biancastro a contrastare con lo sfondo nero. Alcune capelveneri ne approfittano per proliferare aggrappate alla parete.

Questo trio di nero, grigio-bianco e verde ha una straordinaria potenza ctonia, a cui si aggiunge poi il blu marino come il quarto moschettiere. A sovrapporre suono e movimento all’effetto, grasse gocce d’acqua piovono copiosamente dal soffitto sul pelo dell’acqua. Questo spettacolo è esclusivamente dedicato a chi arriva dal mare. Non c’è nessuna possibilità per i terricoli di ammirare questo scorcio di Sardegna.

Poco più avanti assisto a uno dei più cromaticamente drammatici turnover geologici di tutta la costa. Siamo a Su Coduleddu. La trachite rugginosa di Capo Nieddu lascia repentinamente il posto a vaste distese morbidamente arrotondate di calcare, marne e depositi fossiliferi, bucherellate come fossero state mitragliate da una pioggia di micrometeoriti. Il paesaggio si fa lunare improvvisamente. Il sottile strato di terreno soprastante ha perso tutta la verdezza di qualche metro prima, e corona questo immenso ossario come un’incrostazione polverosa. A contatto col mare la roccia spettrale si ritira, lasciando sospettare profonde grotte sottomarine. Grotta Su Coduleddu è la più nota.

La Torre di Pittinuri pare ancor più solitaria ed esclusa di tutte le altre, per il deserto che la circonda. Questo tratto di costa non si protrae a lungo, ma nel breve spazio della sua prevalenza è uno degli spettacoli naturali più singolari di tutta la costa occidentale.

Approdo alla spiaggia di Santa Caterina di Pittinuri, incastonata come una perla dentro un’ostrica di roccia. Riprendo fiato. Pagaio ormai quasi senza posa da sette ore, e il corpo chiederebbe requie. Ma a poca distanza da qui c’è un altro spettacolo della natura, e io non vedo l’ora di star di fronte a lui con i miei occhi.

S’Archittu, l’archetto. Forse un’antica grotta la cui parete in fondo è collassata, lasciando libero il passaggio a chi arrivi dal mare. Il patriarca roccioso di questa costa, l’indiscusso capo spirituale. Storicamente questo luogo è dotato di una potente forza gravitazionale. Nell’insenatura di cui S’Archittu era una delle due vie d’accesso, si trovava il porto della città di Cornus, la città fondata nel VI secolo a.C. e capitale dei nuragici, luogo cardine nel 215 a.C. del Bellum Sardum, la rivolta antiromana e filopunica del suo capo: Ampsicora. I resti di Cornus sono a un paio di chilometri da qui, nell’entroterra. Mi fermo a galleggiare pochi istanti e rendo omaggio a questo luogo e alla memoria che conserva di quegli strenui combattenti per la loro libertà.I bagnanti agostani mi convincono a pagaiare oltre velocemente.

Attracco al tramonto nella spiaggia di Is Benas, che contorna la pineta di Is Arenas. Mi basterebbe svoltare l’angolo e vedrei l’isola di Mal di Ventre e la baia di Oristano. Ho raggiunto il punto di mezzo della costa occidentale, ma la finestra di bel tempo si sta chiudendo. Il bollettino marino dice che il maestrale si prepara a sferzare la costa occidentale. Il rischio è quello di rimanere bloccato per giorni e giorni in un approdo imprecisato. Decido che il giorno dopo attaccherò la rotta del ritorno. Is Benas è infestata dagli insetti. Si danno il cambio con metodico tempismo. Durante le ultime ore di sole vengo tormentato dalle vespe; poco prima del tramonto arrivano sciami di moschine marine; all’ora canonica vengo assaltato dalle zanzare. Tutto merito dello stagno appena dietro le dune, il padre di tutto questo fiorire di supplizi. Trascorro la notte barricato nel mio bivacco come in un bunker e la mattina, ore 6:19 – ben prima dell’alba – inizio il ritmato pagaiare.
Poseidon
Fluttuo velocemente sull’acqua liscia come il cristallo per l’assenza totale di vento. Ho sognato il piano di rotta del ritorno. Se voglio arrivare a Porto Ferro prima del maestrale, devo riuscire ad arrivare a sera non troppo lontano da Capo Caccia.
Capisco che devo tentare l’impresa. Devo percorrere in un solo giorno il tragitto fatto nei due giorni precedenti. Più ci penso, più mi sembra improbabile. Più ci penso, più mi appare necessario.Punto verso Capo Nieddu e Punta Foghe, che separano il grande golfo in due parti, quella di S’Archittu da quella di Bosa. Non me la sento di puntare direttamente Capo Marargiu, che vedo nitidamente in lontananza. Risparmierei un bel tratto di mare, ma mi allontanerei un po’ troppo dalla costa, cosa poco prudente.

Ma col trascorrere delle ore, lentamente, un poco alla volta, cambio decisione e mi arrischio, tranquillizzato dalle condizioni del mare e del vento. Siamo fra la bonaccia e le lievi brezze, che girano e non assumono nessuna direzione precisa. Risoluto, punto verso Capo Marrargiu. Quando si pagaia così lontani dalla costa, la difficoltà è prima di tutto psicologica. Prossimi alla riva, miriadi di dettagli tengono la mente occupata. Le rocce, la vegetazione, gli insediamenti umani, gli uccelli… In mezzo al mare, la costa lontana sembra non avvicinarsi mai, pare immobile. Si ha persino difficoltà a percepire la reale velocità del kayak. Per farlo bisogna cercare piccoli riferimenti: oggetti galleggianti o qualche bolla prodotta dalla prua che solca l’acqua. E le ore non passano mai. I pensieri turbinano in vortici insistenti e bisogna sforzarsi per disciplinarli, come farebbe un maestro elementare circondato da ragazzini impertinenti. E la meta diventa un’ossessione. Per ore la guardi, la osservi avvicinarsi con una lentezza esasperante. Spesso distogli volontariamente l’attenzione per qualche minuto, sperando di vederla finalmente prossima, quando non resisti più e gli rigetti lo sguardo avido. I suoi colori, i contorni, i dettagli diventano lentamente più riconoscibili. Ma è uno stillicidio. In cuor tuo inizi a detestarla. Dopo 6 ore e mezza, quando sono quasi sotto di lui, pronto a passare il capo, gli inveisco contro. Spero non decida mai di farmela pagare.

Passato l’odiato promontorio mi concedo l’unica pausa di tutta la giornata. Non ci sono spiagge qui, fino a Pòglina. E allora non mi rimane che adagiare delicatamente Aerius sul questi bassi scogli di Cala Ittiri, resi morbidi da un cuscino di alghe. Il paesaggio è selvaggio e arde del calore senza requie trasmesso dal sole che oggi non ha nessun contraltare ventoso.

Questa volta taglio deciso il golfo di Pòglina, accompagnato ancora da una bonaccia persistente, e passo il capo subito dopo Cala Griègas. Sto entrando nella rada di Alghero, e penso che forse ce l’ho fatta, ho quasi raggiunto l’obiettivo di giornata. Mai avere pensieri così tracotanti. Il mare potrebbe decidere di farti sentire la voce del padrone.
E qui cambia tutto. La rada di Alghero è per le onde come una culla. Le accoglie da più direzioni, e quelle incrociandosi crescono. Al termine del giorno, poi, si sono ormai sommate le une alle altre, e il momento è quello peggiore. Più mi inoltro nella rada, più pagaio con difficoltà crescente. Sono ormai di fronte alla città.

All’altezza della Punta dei Lavatori succede qualcosa.Forse la conformazione del fondale, forse una serie di coincidenze del moto ondoso. Alla mia sinistra sento uno sbuffare animalesco. Poi un suono, come di decine di bottiglie di spumante agitate e fatte schiumare tutte insieme. Mi volto e ho appena il tempo di vedere una serie spaventosa di due, tre onde abnormi. Sono alte almeno 2 m e mezzo e in cresta cominciano già ad arricciarsi. È quello il suono – benedetto – che le ha annunciate. È un lampo. Capisco che non posso affrontarle di prua come faccio di solito. Sono talmente alte che non mi darebbero il tempo di risalirle. Tantomeno posso rimanere di lato, mi ribalterebbero in un attimo. Premo sul timone disperatamente e pagaio con tutta la forza per offrire la poppa. L’onda mi prende come fossi una barchetta di carta. Uso la pagaia per tentare di rimanere a galla, mentre sbandando paurosamente vengo lanciato decine di metri più avanti, verso la costa. Non so come, ma galleggio ancora. I mastodonti passano. Pagaio con tutta la forza in corpo per cercare di raggiungere una zona sicura, verso i bastioni.
Ma è l’ora. L’ora in cui tutti i motoscafi del porto di Alghero tornano alla base. E io sono lì, lungo quell’unica rotta che dovrei evitare. Ma è troppo tardi. Passa il primo, il secondo… poi il terzo. Poi ancora. Ognuno produce delle onde tremende. Non così alte come quelle a cui ho appena sopravvissuto, ma più corte, più ravvicinate, più infide. E i bastioni sono proprio lì, il rischio è quello di venirci gettato contro. Alcuni non mi vedono, altri mi vedono e se ne fregano. Nessuno rallenta. Sono come in un mare in tempesta. Pagaio strenuamente. Dopo una mezzora che mi sembra una giornata intera, esco dal corridoio di accesso al porto. Forse adesso è finita. Ma non oso pensarlo, temendo di venire punito di nuovo anche per il solo fatto di averlo sperato.
Mi inoltro nella rada di Alghero, verso Fertilia, costeggiando la spiaggia di Maria Pia. Passo Fertilia che il sole ormai è calato dietro la collina. Con le ultime forze residue raggiungo una delle calette che precedono le Bombarde, proprio accanto a quella che mi ha ospitato all’andata tre notti fa. Sono stremato. 14 ore di pagaiata quasi ininterrotta, 38 miglia (70 km) percorse. Scendendo dal kayak cado in acqua come un corpo morto. Non ho più che le forze per accamparmi e mangiare qualcosa.Poseidon mi ha graziato, per oggi. Ma ci ha tenuto a ricordarmi chi è che comanda.
Epilogo
La paura di trovare Capo Caccia già circondato da onde pericolose al levarsi della termica, mi fa svegliare prima di tutti gli altri giorni. Oggi sono in acqua già alle 5:30 diretto verso Punta Giglio e poi verso le alte scogliere che rimarranno pur sempre quelle più maestose di tutto il viaggio. Punta Giglio è ancora immersa nella nebbia mattutina, oggi particolarmente densa.

Arrivo sotto Capo Caccia che ormai il sole ha fatto capolino e riverbera d’oro tutto il corpo del sovrano. Lascio per ultime e senza parole le immagini di questa alta, sovrumana scogliera calcarea, che si protrae fino a Punta Cristallo in un continuo avvicendarsi di baie, grotte, isole.
Periplo-prequel finisce qui.
Navigare necesse est, vivere non est necesse. – Plutarco, Vita di Pompeo

Dati tecnici di viaggio
- 8 giornate di navigazione
- 9 giorni totali di viaggio
- 162 miglia marine percorse, pari a 300 km circa
- kayak Klepper Aerius Expedition II
- tenda da bivacco Ferrino Bivy
- Sea to Summit UltraLight insulated mat – Sea to Summit Aeros Premium Pillow
- sacco a pelo Ferrino Levity 01
- fotocamera Sony Alpha 6000
- GoPro Hero 4
- Vinsic VSSP103 22W Foldable Solar Panel Charger Dual Port